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martedì 15 luglio 2008

Muoio, non muoio, muoio, non muoio, muoio


19 maggio 2008. Il figlio di Giuseppe Debiasi annuncia la morte prematura del pittore di Ala colpito da un infarto all'età di 61 anni. «Non è più con noi Giuseppe Debiasi, artista, di 61 anni. E' venuto a mancare lasciando nel dolore quanti l'hanno conosciuto: lo annunciano i figli e parenti tutti. I funerali avranno luogo in forma strettamente privata».

21 maggio 2008. E' ancora con noi Giuseppe Debiasi, artista, di 61 anni. Egli stesso annuncia che la sua ora non è ancora giunta. I funerali non avranno luogo.

Nell'arco di due giorni Debiasi è morto e risorto senza bisogno di miracoli, esperimenti scientifici estremi, accanimenti terapeutici o pozioni magiche. Gli è bastato chiedere al figlio di annunciarne la morte, chiudersi in casa, non rispondere al telefono e osservare lo scorrere degli eventi.
Al suo risveglio ha spiegato (leggi l'intervista) che la messinscena era un'azione artistica messa in piedi allo scopo di protestare contro le istituzioni trentine, ree di ignorare gli artisti locali abbandonandoli a se stessi salvo poi tributare onori di circostanza in occasione della loro morte.
Le motivazioni che hanno spinto Debiasi al gesto eclatante mi lasciano gelido perché considero troppo forte il dislivello fra lo scopo che si prefiggeva Debiasi e il mezzo usato per raggiungerlo. Fingere la propria morte provocando del dolore ad amici e parenti è un prezzo troppo alto da pagare per ottenere della semplice visibilità e lottare contro un sistema incolpato di mettere in secondo piano gli artisti locali.

Per fortuna si possono ignorare tranquillamente gli impulsi creativi degli artisti e i ragionamenti che li hanno spinti a dare vita alle opere, perché nel caso della finta morte di Debiasi - e prima di imbattermi nell'esegesi fornita dall'autore (in un’intervista pubblicata il 22 maggio 2008 dal quotidiano Trentino) - sono stato favorevolmente colpito per altri motivi.
Il 19 maggio 2008 Giuseppe Debiasi è morto davvero. E' morto per i parenti e gli amici che lo hanno pianto. E' morto per critici e giornalisti che lo hanno ricordato sui quotidiani. E' morto per la gente qualunque che si è chiesta chi era e lo ha scoperto. Il necrologio ha fatto da catalizzatore ad una rete di pensieri ed emozioni che non si limitano a ruotare attorno alla morte ma ne fanno parte tanto quanto lo spegnersi del corpo. Una semplice frase è bastata a plasmare la realtà, perché ciò che è stato detto il 19 maggio per alcune ore è diventato realtà. Poco importa se il giorno dopo Debiasi ha gettato la maschera: non si può tornare indietro e impedirgli di spedire il necrologio e non si può negare che quel giorno - dal punto di vista di parenti, amici e giornalisti - ERA morto.


«Che cosa c'è in un nome? - chiede Giulietta a Romeo nel dramma di William Shakespeare - Quel che noi chiamiamo col nome di rosa, anche se lo chiamassimo d'un altro nome, serberebbe sempre lo stesso dolce profumo»

Giulietta non ha fatto in tempo a capire che poco per volta anche il nome "rosa" ha incominciato a serbare il profumo, la forma e la delicatezza della rosa. Non si può cogliere un fiore con i petali rossi, le spine e un particolare profumo e chiamarlo margherita, perché chi ascolta (e non guarda) penserà ad un fiore bianco e giallo senza spine e non capirà. Pronunciando la parola "rosa" non si richiama solo una definizione da vocabolario ma anche sensazioni tattili e olfattive.
I nomi possono nascere come una mera convenzione linguistica ma poco per volta instaurano una relazione con le cose che nominano, tanto forte da diventare in certi casi predominanti.
E' successo con la "morte". Giuseppe Debiasi, limitandosi a nominarla, ha dato l'illusione che fosse venuta davvero a prenderlo, e Romeo, non sapendo che Giulietta era caduta in uno stato di morte apparente dopo avere ingerito una pozione, ha usato a sproposito il nome "morte", ne è stato sopraffatto, e ha deciso di raggiungere la sua amata. In entrambi i casi i "fatti" sono passati in secondo piano per dare spazio all'aspetto linguistico, a ciò che viene raccontato (da Debiasi) o percepito (da Romeo).

2 commenti:

  1. Dio, che intervento misero, e quanta crassa ignoranza! Povero Shakespeare, così mal interpretato!

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  2. A Shakespeare gli infilo un rapanello in culo, altro che mal interpretarlo.

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